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LA POESIA È UNO SPECCHIO

Lorenzo Spurio

Ringrazio di cuore la poetessa e amica Gabriella Maggio per avermi invitato a contribuire – seppur a distanza – a questa bella serata di poesia. È sempre piacevole prendere parte a iniziative che abbiano per oggetto la poesia, che permettano di condividere i testi di noi autori contemporanei, di sentire le voci interiori che si celano tra i versi nei quali spesso, in quanto uomini investiti da bisogni analoghi, ci ritroviamo. Ho pensato un attimo a quel che dire e ci ho impiegato qualche giorno a elaborare questo breve scritto. Non tanto perché l’idea generale di Poesia – così ampia e inarrivabile – mi mettesse a disagio, quanto perché spesso si perviene a un discorso che intendevamo fare percorrendo il sentiero in forma contraria. Mi spiego. Della poesia tutti hanno sempre parlato, dagli addetti ai lavori agli umanisti nello stretto senso della parola, ai letterati appassionati, sebbene fuori circuito o inascoltati, agli accademici prolissi e pedanti. Tutto e il contrario di tutto è stato detto con l’unica comunanza che non è possibile indagare, se non ricorrendo all’etimologia che non sbaglia e che non è un codice arbitrario, il significato del concetto stesso della parola “poesia”. Orbene, essa ha a che fare con la creazione ma questo è un qualcosa di abbastanza naturale, se non addirittura ovvio, perché tutto quel che “produce” l’uomo, sia che esso abbia una conformazione tattile dunque una disposizione, forma e contenuto nello spazio, sia esso astratto – come un’idea, un progetto, un programma, un desiderio – è atto di una creazione. Vale a dire che sorge in seguito a un qualche accadimento che il più delle volte, per la produzione concreta di oggetti è voluto, dunque intenzionale e razionale nel soggetto e, di contro, spontaneo, inconscio o apparente misterioso per quel che avviene con la produzione di immagini, riflessioni, richiami e percezioni. Il poeta e amico Federico García Lorca, che senza nessuna remore o malizia definisco “il più Grande”, in una nota conferenza che recitò in varie università, tanto nel suo Paese che in sud America, si concentrò sugli aspetti primordiali che riguardano il poeta nei momenti anticipatori e direttamente più prossimi – assai fertili e luminosi, quei bagliori d’ispirazione che se non riusciamo a cogliere all’istante vanno irrimediabilmente persi – della concatenazione di tre elementi indivisibili che intervengono nell’animo del poeta (non solo il poeta nel termine più stretto, ma di colui che, appassionato e coinvolto, percepisce un sentire altro, grazie al suo genio, lo recepisce e lo riaffida al reale mediante i codici comunicativi a lui più congeniali. Nella sua particolare logica poetica – ben lungi da teorizzazioni che gli sarebbero state troppo strette – parlò di tre diversi stadi che conducono alla creazione poetica ovvero l’immaginazione, l’ispirazione e l’evasione. Ambiti che noi poeti conosciamo perché rappresentano quello spazio ambito – non localizzabile in nessuna mappa geografica – dove spesso il nostro pensiero va a scavare, a riflettere, a librarsi verso altri orizzonti. Lorca riconosceva all’immaginazione un ruolo importantissimo nella creazione poetica ma questo non deve far pensare, neppure lontanamente, che proponesse una poesia mitizzata, irrazionale, lontana dalle sue reali esigenze e volontà. Al contrario è proprio l’immaginazione, vale a dire quella libertà di veduta che il poeta non può far a meno, che gli consente, in un fenomeno percettivo che gli è proprio di recepire l’ispirazione che, com’è noto, è sempre qualcosa di automatico e misterioso, che si riceve non perché si è cercato ma perché interviene in noi in un momento che da catartico si fa epifanico. L’ispirazione, che è automatica, dunque non gestibile e perfusa al soggetto in maniera inavvertita e non pronosticata, è permessa da una serie di condizioni indescrivibili e mai ripetibili che, anche se volessimo riprendere in un secondo momento (a noi più congeniale) o ripetere in un tempo successivo, mai ritorneranno nella loro forma primordiale. Ecco, allora, che si può parlare di poesia portando ciascuno le proprie considerazioni, in maniera del tutto libera, la propria esperienza, i metodi con cui l’individuo riesce a produrre, vale a dire a “creare”, quali sono le sue condizioni più favorevoli per riuscire ad ottenere quell’ispirazione che conduce poi al testo scritto, come pure alla realizzazione di una campitura figurativa o no a colori, dal momento che la poesia la si può ritrovare anche nell’arte. Tuttavia ho sempre creduto che la poesia debba rimanere l’oggetto principale, il focus dal quale non distanziarsi troppo per evitare mistificazioni o sproloqui. Spesso essa è diventata, ad uso e consumo di qualcuno, il contenitore vago e maggiormente adatto all’interno del quale inserire ed estrarre, a piacimento, qualsiasi cosa: “questo è poesia…”, “anche questo è poesia!”, “non noti come è poetico?”, “ecco la poesia!” e così via. Dire che ogni cosa sia la poesia sicuramente non ci aiuta a comprendere che cosa essa sia (o possa realmente significare). Le considerazioni che si possono fare sull’atto ispirativo che coinvolge la creazione poetica sono molteplici e convogliano a sé anche tutto un particolare sistema di concepire la poesia quale grumo emotivo. Tuttavia, e alcuni tra i maggiori letterati di tutti i tempi non hanno mancato di farlo, si è evidenziato come sia di particolare rilevanza non solo la genesi del testo poetico ma anche la sua destinazione. Quest’ultima attiene tanto alle forme che veicolano il messaggio quanto più propriamente ai contenuti. Voglio qui riferirmi a quella materia possente e frastagliata di contenuti che attengono alla dimensione concreta dell’uomo nella quale l’individuo è posto in relazione al suo contesto sociale, nel quale è iscritto, e a quello più allargato dell’universo tutto, unico ambiente disponibile per tutti gli esseri umani conosciuti. Ecco che la poesia è stata impiegata nel tempo per denunciare soprusi o dichiarare l’importanza dei diritti, in una forma che in taluni contesti e per l’approccio viziato di alcuni l’hanno trasformata in proclama, esasperata demistificazione, populismo, monito di facile proselitismo e, cosa ben peggiore, difesa ideologica e apologia. La poesia operaia della prima metà del Secolo scorso in Italia ne è un esempio. Penso a Luigi Di Ruscio, riferimento, in poesia, del romanziere Paolo Volponi, entrambi grandi letterati dell’unica regione plurale. In taluni casi, come fu per Pablo Neruda, Rafael Alberti o Bertolt Brecht, il verso divenne talvolta slogan. Pur partendo da una reale partecipazione al dolore e alle frustrazioni dell’uomo, lo sdegno si faceva portavoce di ideali imperanti da diffondere e sostenere, contro ideologie ritenute vetuste, ingiuste, non libertarie. Questa poesia definita in taluni casi impegnata, perché forte dell’impegno di sostenere un’accusa contro una situazione di malaffare e ingiustizia, prese ben presto le pieghe di una più becera contrapposizione, tra esasperati nazionalismi e irridentismi infuocati e vere e proprie lotte al nemico. Forme di rastrellamento, persecuzione e fucilazione in poesia. Ritengo utile, per concludere, sottolineare come possa – e anzi debba – esistere una poesia che, pur muovendo dal malumore dell’individuo dinanzi alle vulnerabilità e le disattenzioni di una società cieca o iniqua, sia scevra dalla difesa di una venatura ideologica, politica e partitica, rimanendo fedele a se stessa con la cura e la difesa del bene collettivo, dei diritti, delle forme di libera e degna sussistenza al mondo. Quel tocco che potremmo dire morale che ci porta a prenderci cura dell’altro – che magari non conosciamo – ma del quale percepiamo, per via indotta, il malessere e la sopraffazione subita. Ritornando all’inizio di questo discorso nel quale si diceva della creazione quale prodotto concreto e consapevole dell’uomo dotato di ingegno, evasione e creatività (dunque fondamentale è anche la libertà), possiamo sostenere che la poesia è anche un atto di solidarietà perché si fonda sull’ascolto attento, sulla lettura dell’altro, sulla compartecipazione e la reciprocità, come è questo stesso incontro che si tiene questa sera. Scantonando le logiche geopolitiche e di tattica militare che nulla interessano la poesia né l’intervento in oggetto, mi pare doveroso portare l’attenzione su quanto sta accadendo in Ucraina ormai da più di un mese dove le libertà sono state duramente soppresse e nel peggiore dei modi. A tal riguardo vorrei citare alcuni versi di una poetessa, con la quale sono in contatto, di nazionalità ucraina originaria della zona incriminata del Donbass, fuggita ora nell’est del Paese dove si trova a Lviv, il cui toponimo in italiano, è Leopoli. La città più grande e importante dell’Est dell’Ucraina richiamata quale “porta per l’Europa” per la sua vicinanza alla Polonia. Pur sperimentando il dolore e la paura ad altissimi livelli, trovandosi in quella martoriata terra, la poetessa non ha potuto esimersi di ricorrere alla Poesia anche in quei drammatici istanti. La parola dei poeti ha sempre qualcosa di vero da dire e di forte da rivelare.

La notte sta precipitando a terra

con grappoli di fiori appassiti

ed entra con denti marci di silenzio nelle nostre bocche.

La nostra lingua ora è una chat tra volontario e rifugiati

in cui le sirene intonano canti a Ulisse.[1]

Le immagini condensate in pochi versi ci parlano di una devastazione senza precedenti. Di un dire diventato difficile, di un colloquio impraticabile, di una paura che aleggia, vischiosa nell’aria, senza annunciare a dileguarsi. Possono sembrare tracce di una narrazione di una terra desolata, di uno spazio inospitale dove l’uomo è caduto, si è arresto al Male e, pur deambulando dolente, ha perso irrimediabilmente la via. Si stagliano venature di pesante grigio e informi calcestruzzi negli occhi, nuvole fisse che non lasciano dileguare speranza o grida nel vuoto. L’immagine della guerra della poetessa, di come la sospensione dell’uomo divenga assoluta dinanzi al baratro dell’esistenza, è tale che dobbiamo fermarci a pensare. La poesia si fa specchio di un margine che a una prima vista non ci era dato a conoscere e che, nei versi che annodano questa collana di disperazione, riversano il nostro riflesso in una dimensione altra. Quella che la poetessa ci fa conoscere, con tanta intensità, perché la sta vivendo sulla sua pelle. La poesia è uno specchio.

Jesi, 12 aprile 2022

 

[1] La poesia è della poetessa Iya Kiva. Scritta in russo è stata poi versata in inglese e, da questa lingua, in inglese. La versione in italiano riportata è a cura di Alessandro Achilli ed è stata pubblicata lo scorso 19 marzo 2022 sul sito della poetessa e giornalista Rai Luigia Sorrentino: www.luigiasorrentino.it

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