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PIETRO TALLARITA: AFFETTUOSE IRONIE

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Pietro Tallarita- Noi e la nostra rivoluzione

Un enorme ‘jolly joker’ – dall’inglese “allegro buffone” –, la ‘matta’ che in molti giochi di carte può assumere qualsiasi valore a piacere e che nei costumi rimanda a giullari, saltimbanchi e cantastorie, per secoli associati al divertimento sfrenato o alla follia, incombe sulla grande tela intitolata “Noi e la nostra rivoluzione”. Vesti policrome, campanellini sull’ingombrante cappello e sul bavero, sorriso beffardo, che non mostra i denti, e sguardo distolto; chi guarda dritto negli occhi lo spettatore è il piccolo omino vestito di feltro che, non più “appeso” ad un appendiabiti come nella scultura/installazione di Maurizio Cattelan – senza dubbio il più famoso e quotato artista italiano vivente – viene tenuto in bilico proprio dal personaggio burlesco, simbolo del destino. Chiave di lettura dell’opera, che racchiude una doppia citazione, è l’ironia: l’opera di Cattelan del 2000 che ritrae l’artista stesso, “La rivoluzione siamo noi”, era già una dirompente citazione in grado di creare un corto circuito o un ribaltamento di senso, giacché nel titolo e nel materiale utilizzato, il feltro/simbolo di rigenerazione, richiamava l’analogo slogan del ’72 di Joseph Beuys, importante protagonista dell’arte del XX secolo. Se per Cattelan l’uomo era ormai impossibilitato a compiere una rivoluzione, per Pietro Tallarita la rivoluzione esiste ancora, ma è strumento nelle mani di un destino burlone ed al contempo, proprio come un jolly, capace di svolgere qualunque funzione a seconda delle necessità. La burla al limite della derisione, l’ironia sottile, la deformazione umana (e animale) sono costanti del linguaggio espressivo dell’artista che, con prorompente ma equilibrata esplosione di colori e stati d’animo messi in scena attraverso le espressioni giocose, severe, malinconiche, stuzzicanti o repulsive dei suoi personaggi, comunica istantaneamente il proprio modo di vedere ed affrontare la vita. Si tratta di una giocosità a suo modo seria e profonda, di un’irriverente spensieratezza che cela stati d’animo e pensieri tutt’ altro che frivoli: un’affettuosa e in qualche caso amara ironia. La sua prima produzione è stata caratterizzata da strane creature d’invenzione (frutto dell’innesto fra anatomie tipicamente umane ed elementi innaturali) e da animali fortemente espressivi e antropizzati, portatori di riflessioni, talora dolorose, sulla società – è il caso di  “ Mare Mostrum”,”Pagliacci” e di “Basta vado via!”, opera questa, vincitrice del Premio Giotto Maimeri – La Rinascente, recentemente esposta nella sua ultima personale (locali della Rinascente di Palermo) e nella prestigiosa collettiva Exempla, in occasione della settimana delle culture di quest’anno. La più recente ricerca di Pietro Tallarita si è invece indirizzata verso un inedito e sorprendente confronto con alcuni grandi maestri del Novecento. L’intento dell’artista, tuttavia, non è affatto imitativo né cela l’intima presunzione di un possibile superamento: intessendo di volta in volta un fitto dialogo fatto di rimandi, perplessità e accostamenti, Tallarita affronta tematiche, artisti e soggetti scelti con ‘affettuosa’ e ‘rispettosa’ ironia. Le sue reinterpretazioni sono dense di riflessioni e interessanti richiami, che si tratti della società dei consumi osannata dalla Pop Art o della borghesia altolocata ritratta da Amedeo Modigliani. In “Una notte al museo”, infatti, il poeta e mercante d’arte Léopold Zborowski e la consorte Lunia Czechowska, insieme a Jeanne Héburterne, moglie di Modigliani, si sono come “materializzati” sbucando fuori dai famosi ritratti dell’artista ed osservano con perplessità, ribrezzo o meraviglia il ‘vero capolavoro’ esposto nel museo, una bizzarra giraffa umanizzata che riprende in modo ironico le loro fattezze, fisiche e caratteriali.  In “Scherzo d’artista” oggetto di riflessione è, invece, la nota operazione artistica (con tutti i dubbi e le implicazioni del caso, legate all’essenza e allo statuto dell’arte nonché allo sconfinamento della stessa nella mera commercializzazione) del 1961 di Piero Manzoni, consistente nella realizzazione delle famosissime ed ultra quotate scatolette di Merda d’artista: in questo caso l’ironico ‘nanoide’ – ritratto o, meglio, proiezione di Tallarita – con sguardo suadente ed intento provocatorio, è effigiato nel momento successivo all’”atto” e richiama, con ulteriore burlesca irrisione, una delle icone chiave di Andy Warhol, la latta di Campbell’s Soup, nella quale, allo stesso modo di Manzoni, conserverà la ‘preziosa materia’. Il padre della Pop Art è, altresì, protagonista di “Warhol in décollage”, vero omaggio/riflessione sulla sua opera e sull’arte del dipingere. Sovrapposti in più strati quasi si trattasse di un décollage di Mimmo Rotella o di Jacques de la Villeglé, affiorano gran parte dei soggetti prediletti da Andy Warhol, da Marilyn a Liza Minnelli, da Micky Mouse a John Lennon e Mao Tse-Tung fino alla Coca-cola, alla famosa banana dell’album dei Velvet Underground ed alla pistola che, posta vicino alla scritta “War”, in un gioco di assonanze sottintende all’attentato subito dall’artista, alla violenza della guerra ed a Warhol stesso. Inoltre la serialità tipica di Warhol è insieme espressa e rinnegata, in quanto in luogo della tecnica serigrafica – l’unica utilizzata dall’artista americano – tutto viene rigorosamente realizzato attraverso una meticolosa tecnica pittorica, caratteristica imprescindibile di Tallarita che non a caso, sempre fedele al medium artistico per antonomasia, tra una risata e l’altra sovente afferma: «Se la pittura ha ancora così tanto da esprimere diamoci da fare con essa, no?». Non mancano ‘affettuose ironie’ nei confronti di grandi artisti quali Picasso – “Picassata Siciliana” _ o Fontana “Irriverente omaggio a Fontana”  il cui ‘taglio’ nello spazio viene invaso da scarafaggi, formiche e altri repellenti insetti e in direzione di artisti meno noti ai più, come Antonio Bueno e i suoi caratteristici tondeggianti ragazzi vestiti alla marinara – “Un pò alla Bueno”  o Armodio, artista semisconosciuto in Italia ma presente in importanti collezioni internazionali, quì ritratto in compagnia dei suoi tipici oggetti fantasmagorici che – ecco ancora la beffa! – quasi reputano insufficiente il loro creatore, a giudicare dal voto impresso sull’aeroplanino di carta dagli echi scolareschi, a dispetto del giudizio di eminenti critici d’arte, che lo hanno definito «il pittore senza errori» – “Il mondo di Armodio”. Conclude la mostra del fervente artista palermitano, dal profondo rispetto per i valori accademici ma al contempo profondamente anti-convenzionale, La vera guerra del Signor Magritte, tête-à-tête con il padre del surrealismo belga. Ispirandosi all’opera del ‘64 La Grande Guerra, in cui un uomo a mezzo busto in giacca, cravatta e bombetta ha il volto coperto da una mela verde dal momento che l’individuo in guerra, trattato come un numero, diviene anonimo ed insignificante, Pietro Tallarita “combatte” l’annullamento della personalità ridonando un volto all’uomo ritratto – al quale regala i connotati di René Magritte – e ponendo la mela, che viene trafitta da una freccia dal sapore di una antica battaglia, sulla sua bombetta. La vera guerra di Magritte è, forse, quella interiore?  (Maria Stella Di Trapani )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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